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Agroalimentare chiave di volta dello sviluppo

Su quali settori deve investire l’Italia per uscire dalle proiezioni dello zero-virgola? Il Censis non ha dubbi occorre puntare sul’agroalimentare e sul comparto ambientale. Quella costellazione di realtà rurali, industriali, forestali che con la propria vocazione all’internazionalizzazione, con i propri legami alla cultura, al turismo e alle bellezze paesaggistiche rappresenta l’ideale “piattaforma di rilancio nazionale”, si legge nel Rapporto 2015.
Chiara l’indicazione: sostenere le nostre migliori filiere, ma anche riqualificare un’economia ambientale troppo a lungo mortificata o limitata a una dimensione protettiva. Le imprese che vanno meglio, che macinano più innovazione, che vendono all’estero, che puntano sulla multifunzionalità, che diversificano le fonti di reddito. Aziende ben strutturate, capaci di esprimere quegli alti standard di competitività richiesti dall’attuale mercato globalizzato nelle quali si svolge un lavoro di qualità, professionalizzato e adeguatamente pagato.
Queste realtà hanno spinto e continuano a spingere una locomotiva che ci ha sostenuto in anni di durissima crisi. L’agroalimentare chiuderà l’anno con 36 miliardi di euro di solo export, registrando un aumento del 79 per cento negli ultimi 10 anni. Un record assoluto, entro il quale brilla la punta di diamante del vitivinicolo, che riconquista la leadership mondiale con 5,5 miliardi di fatturato all’estero.
Ma le potenzialità inespresse restano enormi, sia sul versante agro-industriale che su quello ambientale. Basti pensare che solo il 12 per cento delle imprese alimentari exporta. Basti ricordare le condizioni delle aree interne e montane, lo spopolamento delle aree boschive e rurali, l’incapacità di capitalizzare i nostri tesori paesaggistici. La chiave di volta sta nell’innalzamento della qualità del lavoro agro-industria-ambientale e nella realizzazione di nuovi strumenti di partecipazione.
La Cisl sfida le istituzioni e le controparti sociali su un patto per il rilancio del lavoro, per il sostegno allo sviluppo delle realtà geografiche sottoutilizzate, per la definizione di nuovi e concreti strumenti di democrazia economica.
Vuol dire avvicinare la contrattazione al lungo di lavoro, senza perdere il riferimento fondamentale della contrattazione nazionale. Riconoscere le specificità di ogni stabilimento produttivo, di ogni realtà agricola, di ogni cantiere forestale. Promuovere il coinvolgimento dei lavoratori ai risultati e alle decisioni d’impresa. Entro tale quadro dobbiamo pure cogliere l’opportunità offerta dai Piani di sviluppo rurale.
Una partita che muoverà fino al 2020 circa 21 miliardi, 9,4 dei quali destinati alle Regioni del Sud e orientali su innovazione, competitività, organizzazione di filiera e forestazione produttiva. Per la Calabria sono sul tavolo 1,1 miliardi. Un’occasione imperdibile per lo sviluppo del territorio, del Mezzogiorno e di tutto il Paese, che deve condurre ad una attiva cooperazione tra istituzioni e parti sociali su obiettivi condivisi.
Luigi Sbarra
Fonte:Il Quotidiano del Sud